Vai Mo’, prima personale in Italia di Cecilia Sammarco: un mondo colorato di corpi in festa e architetture visionarie, tra misticismo e quotidianità. Il titolo, ispirato a Pino Daniele, è un invito a vivere il presente e a muoversi con un nuovo ritmo.
Dancing the Threshold
Testo di Angelina Guerrero
Ogni mito contiene un ritmo, un battito che attraversa i secoli per parlare di ciò che ancora siamo. Nelle favole antiche, il mondo impara a respirare attraverso l’assenza e il ritorno: discendere nell’oscurità significa riemergere nella luce. Scendere è perdere la forma, tornare è trovarne una nuova. La terra stessa segue questo movimento — il germogliare e l’appassire delle stagioni, il ciclo del rinnovamento. Un mito della natura e della coscienza, un’allegoria dei tempi in cui dobbiamo scomparire per poter riapparire in modo diverso.
Ed è in questa differenza che emerge la pittura di Cecilia Sammarco. Le sue opere vanno oltre il visibile; le sue linee sinuose cercano ciò che si arrende sotto la superficie del vivere.
Vivere richiede trasformazione — in questo senso, non è mai lineare. Nel suo universo, i corpi si incontrano e si fondono: donne che sbocciano in fiori, uomini diventano parte di strumenti musicali, amanti si disperdono in costellazioni, amici che si intrecciano come se condividessero un solo corpo. O forse è la prospettiva stessa a inventare la favola?
L’illusione della coerenza, la fragile geometria dello stare insieme.
Il mondo di Cecilia è un mondo in cui l’identità è porosa e il cambiamento l’unica continuità.
La metamorfosi non cerca di perfezionare il sé, ma di liberarlo dai suoi confini fissi.
Cambiare forma significa trovare libertà nel flusso dell’essere — una dichiarazione che tutto, anche il dolore, può essere reimmaginato.
Il tempo è l’architettura invisibile di queste trasformazioni, l’istante in cui il cambiamento diventa possibile. Le opere di questa mostra respirano dentro quella tensione, tra disciplina e grazia.
Cecilia preferisce la vita come rivelazione — fatta di amicizia, e dell’estasi della musica e della danza.
Nei corpi selvaggi che Cecilia evoca nel suo mondo, la liberazione diventa eccessiva, tanto quanto la sua ricca cultura musicale e del design. Eccessiva perché dissolve i confini del sé, invitando colori audaci come forma di verità, un metodo per vedere diversamente.
Tra i mondi che Cecilia crea — con i suoi personaggi, i suoi colori, i suoi ambienti — si dispiega una comprensione condivisa: essere umani significa oscillare. Tra corpo e immagine. Tra il misurabile e l’estatico. Siamo esseri di passaggio, plasmati da cicli che non possiamo controllare, ma che possiamo imparare ad abitare in modo diverso.
Vivere le opere di Cecilia — i suoi colori, i suoi motivi, il suo universo — è entrare nell’album Vai Mo’ di Pino Daniele. È muoversi tra ritmi mai conclusi, incontrare il tempo come risonanza, e ascoltare, sotto ogni cosa, un battito che ci invita a perderci quel tanto che basta per ricordare cosa significhi sentirsi liberi.
Alla fine, questi miti non parlano del passato, ma di una condizione che resta senza tempo. Trasformazione, discesa e trance non sono metafore di fuga: sono modi per restare vivi dentro il cambiamento.
La mostra diventa così una coreografia di soglie: uno spazio dove corpo, immagine e momento coesistono in fragile equilibrio. Guardarle significa abitare quell’antico ritmo,scoprire che in ogni caduta si cela la promessa del ritorno, e in ogni forma, la vita stessa — il riso e la musica, il vento e il vetro, l’armonia fugace di una tavola condivisa nella gioia, dove la trasformazione prende la forma del suono, del tocco e della presenza.
Foto
DADO Creative studio e ROMADIFFUSA